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Mercato Centrale di Milano

Cultura del cibo o business urbano?
di Federico Niola

di Federico Niola

Tempo di lettura

3 minuti

di Federico Niola

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3 minuti

Milano continua a provarci. C’è certamente spazio per una giostra di opinioni e giudizi di valore sul merito, ma il fatto che Milano stia cercando di scrollarsi la polvere di dosso è difficile da negare. Per me, è sempre paletta verde per chi sperimenta, anche quando tira un po’ a indovinare. I locali del Mercato Centrale mi hanno dato la stessa sensazione di quando gli amici ti mettono in mano un disegno fatto dal Kandinsky che si nasconde nei loro bimbi. Mamma, papà e il cane Pluto su sfondo azzurro. Ringrazi e dici sempre che è bello, tanto nessuno ti chiede se lo pensi davvero.
Le decorazioni alle pareti sintetizzano uno stile urbano graffitaro funzionale al grande progetto di recidere gli ultimi fili di collegamento con un arcaico tenore industriale e aprire alla libertà creativa ed espressiva. Verrebbe da chiedersi che significato abbiano, cosa vogliano comunicare. Ma perché dovremmo porci la questione? Possiamo parlare di stile e divertimento senza fare i filosofi? Celebriamo l’estetica del fine a se stesso. Non lo sapremo mai, ma chissà quanto valore artistico è nato dal fatto che il pittore aveva finito il rosso e usato il verde. Facciamo finta che siano il disegno del bimbo appeso alla porta del frigorifero di casa.

Italiano, ci mancavi

Sono anche decorazioni che parlano la nostra lingua. In un passato recente avremmo accolto con sospettoso sdegno questa scelta linguistica, ma era l’epoca in cui ci mettevamo la maschera esterofila per sembrare moderni e sentirci parte di qualcosa che varcava i nostri confini. Cercavamo di dire tutto in inglese. La parola cibo si pronunciava rigorosamente food: il panino al prosciutto lo mangi tu, a me piace lo street food. Poi andavi a New york e ti rendevi conto che lì il food parla italiano, per le ragioni che tutti conosciamo e che basta girare un po’ per l’Italia per verificare.
C’è anche un tratto comune che si snoda tra il Mercato Centrale e, ad esempio, Apple o Starbucks e in generale i nuovi non-luoghi della modernità milanese. La prima volta che entrai da Starbucks per fare colazione mi sentii quasi fuori posto, lì seduto con il mio bicchierone in mano. Poi ho capito. Il luogo aveva una propria semantica e senza essere in call o senza un MacBook aperto su un budget o una presentazione io ne avevo una differente. Senza intenzione, sentivo di stonare nell’estetica un po’ hype che alla nuova Milano piace tanto. Anzi, stonavamo. Io e un’allegra signora giapponese in cerata gialla, indifferente a queste logiche nostrane.

Un caffè e un genius loci, grazie

Ora che ci penso, non ho mangiato niente. Ho preso solo un caffè. Probabilmente ero concentrato sull’ascolto del genius loci e io non riesco fare due cose insieme, o mangio o rifletto. Ok, nella prossima vita devo ricordarmi di non leggere Jung! Però è vero che il genius loci esiste, l’anima del luogo, il demone che lo possiede: provate ad andare all’Apple store e chiedere se sono un negozio di computer! A me diverte percepire l’anima dei luoghi. Voi non lo fate mai?
Quello che voglio annotare sui miei post-it da professionista e condividere con voi è questo: lo stile è un linguaggio molto elaborato e, come tutte le forme di comunicazione, è anche un ponte che connette le persone. O le separa. Qui la differenza, qui la nostra personale scelta.

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